IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA 
 
    Vista l'istanza avanzata da C. G.  nato  a  Niscemi  (CL)  il  31
gennaio  1957  detenuto  nella  Casa  di  reclusione  di  Padova   in
esecuzione della pena dell'ergastolo determinata con provvedimento di
cumulo della Procura generale presso la Corte  d'Appello  di  Catania
del 2 ottobre 2007; 
    Sentite le conclusioni del pubblico  ministero  e  della  difesa,
all'esito della  procedura  prevista  dall'art.  35-ter  o.p.,  quale
introdotto dall'art. 1  del  decreto-legge  26  giugno  2014,  n.  92
convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117 ed  a  scioglimento  della
riserva assunta all'udienza del 20 marzo 2015, ha emesso la  seguente
ordinanza. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    Con reclamo pervenuto all'ufficio  in  data  12  agosto  2014,  e
successivamente  integrato  il  14  novembre  2014,  il  detenuto  in
epigrafe proponeva istanza ai sensi dell'art. 35-ter  o.  p.  per  la
violazione dell'art. 3  Convenzione  Europea  dei  Diritti  dell'Uomo
asserendo di aver subito, dalla data della  sua  detenzione  in  vari
istituti italiani, una restrizione  dello  spazio  disponibile  nella
cella al di sotto dei 3 mq essendo stato costretto a  condividere  la
cella  con  altri  detenuti.  Chiedeva  pertanto,  in  ragione  della
violazione complessiva dei diritti subita durante la detenzione ed  a
titolo di risarcimento del danno, una  riduzione  della  pena  di  un
giorno per ogni 10 di pregiudizio sofferto in  relazione  al  periodo
detentivo. 
    Va precisato che la pena  in  espiazione  riguarda  vari  periodi
detentivi a partire dalla  data  dell'arresto  (1°  giugno  1986)  in
relazione al reato di omicidio per il quale il  reclamante  e'  stato
condannato alla pena dell'ergastolo con  sentenza  1°  dicembre  1988
della Corte d'Appello di  Catania.  Le  pene  detentive  relative  ad
un'ulteriore condanna (anni 4 e mesi 6 per l'art. 74 e 73 decreto del
Presidente della Repubblica n.  309/90)  sono  confluite  nella  pena
dell'ergastolo con isolamento diurno per anni 1 (quest'ultimo espiato
dal 28 maggio 2003 al 28 novembre 2003 e dal 20 gennaio  2005  al  20
luglio 2005). Nonostante alcune successive  interruzioni  (anche  per
differimento della pena per complessivi anni 1 mesi 6 e giorni 20) il
periodo in valutazione copre dunque l'intera  condanna  all'ergastolo
poi confluita nel cumulo oggi in  esecuzione,  sebbene  l'interessato
abbia limitato la domanda risarcitoria soltanto ad alcuni istituti in
cui  e'  stato  ristretto:  Ragusa,  Enna,  Noto,  Favignana,  Lecce,
Caltagirone, Sulmona, Vasto, Augusta, Spoleto e Padova. 
    All'esito  della   complessa   istruttoria,   resa   difficoltosa
soprattutto dal fatto che i periodi detentivi sono  perlopiu'  remoti
nel tempo e lo stato degli istituti si e' notevolmente modificato  da
allora, si e' soltanto potuto accertare fino ad oggi che  durante  la
detenzione nel carcere di  Augusta,  in  cui  il  detenuto  e'  stato
ristretto con altri 2 compagni disponendo di uno spazio pro capite di
soli mq 2,79, egli ha subito certamente  un  trattamento  disumano  e
degradante, alla stregua dei criteri indicati dalla Corte europea dei
diritti dell'uomo, per complessivi giorni 384  (in  vari,  alternati,
periodi compresi tra il 10 giugno 2007 e  il  20  maggio  2010,  come
indicato nella nota del predetto istituto datata 7 gennaio 2015). 
    Altresi',  allorche'  era   detenuto   presso   il   carcere   di
Caltagirone, nei periodi in cui ha condiviso la cella dapprima con 13
detenuti indi con altri 7 (dal 22 marzo 1992 al 23 marzo 1992  e  dal
24 marzo 1992 all'11 aprile 1992), ha avuto a disposizione uno spazio
minimo di mq 2,86 nel primo caso e di mq 2,82  nel  secondo,  per  un
totale  di  giorni  19  (cfr.  nota  della  Casa   circondariale   di
Caltagirone del 19 febbraio 2015). 
    Infine, nella Casa di reclusione di Padova,  ove  attualmente  si
trova, egli ha subito un analogo trattamento per un  giorno  soltanto
(il 25 febbraio 2014) allorche' ha condiviso la cella con  altri  due
detenuti, disponendo percio' di mq 2,85  (cfr.  nota  della  Casa  di
reclusione di Padova del 17 gennaio 2015). 
    In ordine alla misurazione dello spazio vivibile, il criterio  di
misurazione qui adottato esclude dalla superficie utile sia i  locali
adibiti  a  servizi  igienici  sia  quegli  arredi  che,  per  essere
inamovibili,   sottraggono   alla   persona   un   effettivo   spazio
utilizzabile. 
    Lo spazio della cella va infatti,  a  giudizio  dello  scrivente,
ridotto a causa  dell'ingombro  costituto  dalla  presenza  di  vario
mobilio: si tratta nel caso di  specie  (per  quanto  qui  interessa)
degli armadi, grossomodo per complessivi mq. 0,54,  che  riducono  lo
spazio effettivamente disponibile ad un limite sempre inferiore,  nei
casi considerati, a quello «vitale» di 3 mq. come fissato dalla Corte
europea. 
    Com'e' noto la Corte di Strasburgo ha ritenuto che  il  parametro
dei 3 mq. debba essere ritenuto il minimo consentito al di sotto  del
quale si avrebbe violazione «flagrante» dell'art. 3 della Convenzione
e  dunque,  per  cio'  solo,  «trattamento  disumano  e  degradante»,
indipendentemente dalle altre condizioni di vita detentiva (afferenti
in particolare le ore d'aria disponibili  o  le  ore  di  socialita',
l'apertura delle porte della cella, la quantita' di luce e aria dalle
finestre,  il  regime  trattamentale  effettivamente   praticato   in
istituto).  In  altre  parole,  la  giurisprudenza  della  Corte   di
Strasburgo,  oggi  espressamente  richiamata  sub  specie  iuris  nel
concetto di «gravita'» dal comma 1 dell'art. 35-ter, ha stabilito che
ancorche' il detenuto, per assurdo, trascorra le sole ore dedicate al
sonno  nella  camera,  non  puo'  comunque  disporre  di  uno  spazio
inferiore a 3 mq. Se e' vero che il 1°  comma  dell'art.  6  o.p.  si
limita a prevedere che i locali nei  quali  si  svolge  la  vita  dei
detenuti e degli internati devono essere di  «ampiezza  sufficiente»,
e' anche vero che esiste uno spazio vitale minimo  al  di  sotto  del
quale la giurisprudenza della  CEDU  ravvisa  la  patente  violazione
dell'art. 3 della Convenzione ratificata in Italia con legge 4 agosto
1955, n. 848. 
    Cio' premesso, si deve ritenere in fatto che il ricorrente  abbia
subito un pregiudizio, integrante la fattispecie sottesa  al  rimedio
risarcitorio qui reclamato, per un totale di almeno 404 giorni,  pari
ad  una  ipotetica  riduzione  di  pena,   applicando   il   criterio
proporzionale di cui al comma 1 dell'art. 35-ter o.p., di giorni 40. 
    In relazione agli altri periodi detentivi non si e' raggiunta  la
piena prova di quanto dedotto dall'instante o perche' in alcuni  casi
egli e' stato ristretto in una cella, sufficientemente ampia, da solo
(Spoleto e Vasto) ovvero perche' i periodi detentivi, particolarmente
risalenti, sono di difficile se non impossibile accertamento (Ragusa,
Enna, Noto, Favignana  e  Caltagirone  prima  del  1992)  o,  infine,
perche' gli istituti  penitenziari  non  hanno  dato  riscontro  alla
richiesta istruttoria (Trapani, Caltanissetta, Floridia, Enna, Lecce,
Sulmona). 
    Il difensore del ricorrente, fermo dunque il diritto ad  ottenere
il rimedio risarcitorio reclamato per il proprio assistito quantomeno
per  il  periodo  di  gia'  accertato  pregiudizio,  solleva  in  via
preliminare questione di legittimita' costituzionale della  norma  di
cui all'art. 35-ter o.p. la quale non consentirebbe di detrarre,  nel
caso  del   condannato   alla   pena   dell'ergastolo,   il   quantum
eventualmente accordato a titolo compensativo  (nel  caso  di  specie
giorni 40), riduzione che potrebbe operare soltanto con  riguardo  ad
una pena temporanea (necessariamente determinata cioe'  nel  dies  ad
quem), non essendo  stata  introdotta  una  disciplina  speculare  al
contenuto dell'art. 54, ultimo comma, o.  p.  -  sulla  scorta  della
fictio juris adottata in tema di riduzione per liberazione anticipata
(li' considerata come «pena espiata») - ne' potendosi  d'altro  canto
dar corso, quale unica riparazione,  al  rimedio  pecuniario  essendo
quest'ultimo un rimedio solo  residuale  e  previsto  di  risulta  in
relazione «al residuo di pena» (comma 2 dell'art. 35-ter). 
    L'impossibilita'   di   accedere   ad   un'esegesi    in    senso
costituzionalmente conforme impone,  a  giudizio  del  deducente,  la
denuncia di illegittimita' della nuova  disposizione  per  violazione
dell'art.  3  Cost.  (in  quanto  escludente  gli   ergastolani   dal
trattamento risarcitorio senza alcuna  ragionevole  giustificazione),
per violazione dell'art. 24 Cost. (rendendo per costoro lo  strumento
giudiziale di tutela privo di effettivita') e dell'art. 27 Cost. (per
la necessita' di non comprimere in  modo  irragionevole  il  percorso
rieducativo  dei   condannati   all'ergastolo   impedendo   loro   la
progressiva umanizzazione della pena) nonche', infine, per violazione
dell'art. 117, comma 1 con riferimento all'art. 3  della  Convenzione
Europea dei Diritti dell'Uomo. 
    Cio'  detto,  si  osserva  che  la   necessita'   di   dilungarsi
nell'esposizione delle questioni in fatto e' imposta dai  profili  di
rilevanza della questione  sollevata,  la  quale  presuppone,  com'e'
noto,  un   collegamento   giuridico   fra   la   norma   della   cui
costituzionalita' si dubita e la res iudicanda. 
    La norma impugnata e' inerente al giudizio a quo,  posto  che  il
richiedente invoca l'applicazione dell'art. 35-ter o. p. 
    Non e' in dubbio che il ricorrente abbia subito, nei  periodi  di
detenzione suddetti, un trattamento «disumano e degradante». 
    In presenza di simili carcerazioni sono oggi esperibili i  rimedi
«risarcitori» (come tali definiti dal legislatore) di cui al suddetto
articolo,   introdotto   nell'ordinamento   penitenziario   con    il
decreto-legge 26 giugno 2014, convertito in legge 11 agosto 2014,  n.
117. 
    Il primo rimedio, disciplinato nei commi 1 e 2, e' esperibile dai
soggetti detenuti dinnanzi al magistrato di sorveglianza e prevede in
via principale il ristoro della riduzione  di  pena  e  solo  in  via
residuale quello pecuniario (in caso cioe' di pena «incapiente» o  di
periodi di detenzione pregiudizievole inferiori ai 15 giorni). 
    Il secondo, regolato dal comma 3, assegna viceversa la competenza
al Tribunale civile in composizione  monocratica  e  puo'  comportare
unicamente un indennizzo monetario per i soggetti non piu' detenuti. 
    Gran parte della dottrina e della giurisprudenza, alle  quali  ci
si  intende  conformare,  hanno  aderito  all'indirizzo  secondo  cui
davanti al magistrato di sorveglianza puo' agire chiunque sia  ancora
detenuto,   indipendentemente   dall'attualita'   delle    condizioni
«inumane» di carcerazione (assente nel caso di specie). 
    A favore di questa soluzione militano plurimi  elementi  presenti
nel testo normativo, poiche' in piu' punti si fa espresso riferimento
a «coloro che hanno subito il pregiudizio» e non invece a coloro  che
«attualmente» lo  subiscono.  L'approdo  e'  coerente  con  la  ratio
legislativa,  deducibile   dall'espressa   volonta'   di   rispondere
all'invito della Corte europea di  introdurre  meccanismi  di  tutela
compensativa effettivi (sentenza Torreggiani) e di individuare  nella
riduzione di pena la destinazione naturale  del  rimedio,  mantenendo
l'indennita'  pecuniaria  come  strumento  riparativo  residuale,  da
accordare solo se, per fattori oggettivi, non sia piu'  possibile  la
detrazione della sanzione (sentenza CEDU  Stella  c.  Italia  del  25
settembre 2014). Si consideri,  altresi',  che  la  via  risarcitoria
ordinaria (come tra l'altro  confermato  da  Cass.  n.  4772  del  15
gennaio 2013, Vizzari) era di fatto gia'  percorribile  dal  detenuto
avanti al giudice civile  anche  prima  dell'entrata  in  vigore  del
decreto-legge n. 92/14, sebbene  non  giudicata  soddisfacente  dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo. 
    Da  tali  considerazioni  discende  la  competenza  del   giudice
remittente a valutare la domanda presentata dal  reclamante  ex  art.
35-ter o.p. 
    Sempre sotto il profilo della  rilevanza  della  questione  valga
ancora una considerazione in fatto. 
    L'odierno ricorrente e' in espiazione di pena dal 1° giugno  1986
(tranne per una sospensione di anni 1 mesi 6 e giorni 20)  e  dunque,
computando  anche  i  periodi  di  riduzione  di  pena  a  titolo  di
liberazione anticipata, da oltre 26 anni. Ha dunque gia' maturato  il
diritto,  in  termini  temporali,  ad  accedere  al  beneficio  della
liberazione condizionale, indipendentemente  dunque  da  un'ulteriore
riduzione che gli venisse  riconosciuta  a  titolo  compensativo.  In
altre parole, ove anche fosse consentita  una  compensazione  per  il
pregiudizio subito  nei  termini  detrattivi  previsti  dal  comma  1
dell'art.  35-ter  o.p.,  comunque  tale  riduzione   di   pena   non
produrrebbe alcun concreto vantaggio  nei  confronti  del  reclamante
posto che, quanto a pena espiata, egli gia' puo' accedere al  massimo
beneficio previsto per l'ergastolano dall'art. 176 codice penale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Ritiene questo giudice remittente non manifestamente infondata la
questione di legittimita' costituzionale della norma di cui  all'art.
35-ter o.p. nella parte in cui non prevede  un  rimedio  compensativo
effettivo nei confronti del condannato alla pena dell'ergastolo,  per
violazione degli articoli 3, 24, 27 comma 3, 117 comma 1, Cost. 
    La questione appare rilevante - per quanto sopra  chiarito  nelle
considerazioni in fatto - posto che nel caso concreto  il  magistrato
di sorveglianza, adito  dal  detenuto  quale  giudice  competente  ad
apprestare un rimedio risarcitorio per detenzione inumana,  si  trova
nell'impossibilita'  di  accordare  sia  una   riduzione   di   pena,
trattandosi di pena perpetua,  sia  un  ristoro  economico,  previsto
quest'ultimo solo in via aggiuntiva per la parte  di  pena  non  piu'
riducibile. 
    Il giudice remittente non puo' peraltro sottrarsi dal  percorrere
la strada  dell'interpretazione  conforme  a  Costituzione  prima  di
rimettere la questione alla  Corte  poiche'  cio'  costituirebbe  una
rinuncia alla propria indeclinabile funzione ermeneutica. Il  giudice
infatti e'  chiamato  a  ricorrere  all'impugnativa  solo  dopo  aver
verificato,  anche  con   l'ausilio   del   «diritto   vivente»,   la
possibilita' di giungere ad una lettura della norma che, nel rispetto
dei comuni canoni ermeneutici, consenta di intenderla in armonia  con
la Costituzione. 
    Va subito osservato  che  non  ci  si  trova  di  fronte  ad  una
disposizione legislativa «polisensa», ipotesi  in  cui  il  principio
dell'interpretazione   adeguatrice    sprigiona    tutte    le    sue
potenzialita', ma ad una norma che prevede casi tassativi di  univoca
interpretazione, non estensibili in  via  analogica  per  il  divieto
dell'art. 14 preleggi (il rimedio detrattivo e' infatti  disposizione
eccezionale alla regola generale dell'indefettibile esecuzione di una
sanzione  detentiva  la  quale  puo'  essere  modificata   in   senso
quantitativo, a piu' scopi,  solo  nei  casi  espressamente  previsti
dalla legge). 
    Va osservato che, sulla base delle usuali regole ermeneutiche, la
norma in oggetto non consente di applicare la detrazione di  pena  ai
condannati che stanno espiando l'ergastolo, ossia una  pena  perpetua
(v. ordinanza Corte costituzionale n. 337 del  1995;  sentenza  Corte
costituzionale n. 270 del 1993) estinguibile solo con  l'applicazione
della liberazione condizionale e l'assenza di una causa di revoca nei
cinque anni successivi alla  sua  concessione  (ex  art.  177  codice
penale). 
    Si pone dunque  il  problema  di  come  possa  incidere,  per  il
condannato all'ergastolo, una riduzione «in astratto» della pena. 
    Il giudice delle leggi ha gia' avuto modo di affrontare  il  tema
della legittimita' costituzionale dell'art. 176 codice penale,  comma
3, sollevata in riferimento agli articoli 3  e  27  Cost.,  comma  3,
nella  parte  in  cui  non  viene  riconosciuto  alcun  effetto  alla
concessione dell'indulto ai  fini  dell'ammissione  alla  liberazione
condizionale del condannato all'ergastolo. Ed invero, come  la  Corte
costituzionale ha avuto modo di osservare (sentenza n. 337 del 1995),
nonostante  l'inquadramento  di  detta  pena   nell'attuale   tessuto
normativo abbia, a determinati fini, provocato il  venir  meno  della
rigorosa caratteristica di perpetuita' che all'epoca  dell'emanazione
del codice la connotava, l'ergastolo deve considerarsi  comunque  una
pena perpetua, tanto da non ammettere «scomputi» che  incidano  sulla
natura stessa della pena. Di conseguenza anche se, a taluni fini,  la
pena dell'ergastolo puo' assumere i caratteri della temporaneita' nel
quadro di quelle misure premiali che anticipano il reinserimento come
effetto del sicuro ravvedimento del condannato - da  comprovarsi  dal
giudice sulla base non  solo  della  buona  condotta  tenuta  durante
l'espiazione   della   pena,   bensi',   soprattutto,    della    sua
partecipazione rieducativa - non e' possibile, ai  fini  dell'accesso
alle misure alternative alla detenzione, detrarre dalla pena inflitta
la  misura  corrispondente  all'indulto   perche',   altrimenti,   si
inciderebbe sulla natura stessa della pena quale irrogata in sede  di
cognizione, con inevitabili riverberi non solo sulla misura ma  sulla
qualita' della pena stessa (ex plurimis cfr. Cass., Sez. I, 15 giugno
2007, n. 35209 e Corte costituzionale n. 337/95). 
    Nei  confronti  degli  ergastolani  sarebbe  pertanto   possibile
ridurre la sanzione solo tramite una fictio  iuris  che  consenta  di
diminuire proporzionalmente i limiti di pena previsti dalla legge per
l'accesso ai benefici penitenziari. Tuttavia  una  simile  operazione
non e' possibile in  assenza  di  un'espressa  previsione  normativa.
L'ergastolo, in quanto pena detentiva perpetua,  cosi'  come  non  e'
condonabile «in parte» ma soltanto  (per  volonta'  del  legislatore)
convertibile in pena di altra specie, non e' altrimenti  «riducibile»
se non per espressa volonta' del legislatore e con meccanismi da esso
stesso voluti. 
    Piena conferma di questo orientamento, consolidato e costante, e'
la circostanza che la liberazione anticipata, anch'esso istituto  che
determina una  diminuzione  della  pena  (a  fini  rieducativi),  sia
applicabile agli ergastolani  solo  in  forza  dell'espresso  dettato
normativo dell'art. 54, comma 4, o.p., che  consente  di  considerare
come pena «scontata»  i  giorni  detratti  a  titolo  di  liberazione
anticipata «agli effetti del computo della misura di pena che occorre
avere espiato per essere ammessi ai  benefici  dei  permessi  premio,
della semiliberta' e della liberazione condizionale». La  liberazione
anticipata, proprio in quanto «pena espiata»,  consente  al  detenuto
«che abbia dato prova di partecipazione  all'opera  di  rieducazione»
(art.  54,  comma  1  o.p.)   di   poter   accelerare   il   percorso
trattamentale, anticipando l'accesso a strumenti  premiali  e  misure
alternative alla detenzione. 
    La  stessa  Corte,  affrontando  ex  professo  la  questione   di
costituzionalita' dell'art. 54 o.p. (sentenza n. 274 del 1983)  aveva
affermato che, essendo l'ergastolo per definizione  una  pena  «senza
una scadenza che sia possibile anticipare», i soggetti a  detta  pena
condannati dovevano poter ugualmente fruire della riduzione  prevista
dall'art. 54 o.p. «ai soli fini  dell'applicazione  del  terzo  comma
dell'art.   176   c.p.»,   essendo   ingiustificata   ed   arbitraria
l'esclusione degli ergastolani dal vantaggio derivante  dal  raccordo
tra questo  istituto  e  quello  della  liberazione  condizionale  in
ragione dei comuni presupposti e delle comuni finalita' (rispetto  ai
condannati a pena temporanea) attuative del terzo comma dell'art.  27
Cost.  La  recuperabilita'  sociale  del  condannato   all'ergastolo,
mediante la possibilita' della liberazione condizionale, segnava  del
resto una svolta  di  evidente  rilievo  nella  legislazione  penale,
sottolineata dalla Corte con la sentenza n. 264 del 1974  che  faceva
salva  la   legittimita'   della   pena   perpetua   proprio   grazie
all'accessibilita' al beneficio dell'art. 176 codice penale. 
    Orbene,  la  norma  dell'art.  54  ultimo  comma  o.p.  e'  norma
eccezionale che devia dal principio generale di  immodificabilita'  e
imperativita' del giudicato e che si fonda  su  presupposti  premiali
(meritevolezza) e risocializzanti (attuazione dell'art. 27,  comma  3
Cost.)  del  tutto  estranei  alla  logica  compensativa,   meramente
riparatrice, sottesa all'art. 35-ter o.p. 
    E' norma pertanto insuscettibile di applicazione analogica. 
    Violerebbe il divieto di cui all'art.  14  disposizioni  preleggi
desumere  dalla  disposizione  dell'art.  54,  comma   4,   o.p.   la
possibilita' di riconoscere come «pena espiata» la riduzione  di  una
pena «senza scadenza» a titolo di rimedio risarcitorio da  detenzione
inumana. Se la finalita' di tale fictio e',  come  ben  chiarisce  la
citata sentenza n. 274/83, quella di rendere  possibile  il  recupero
sociale  anche  dell'ergastolano  grazie  all'anticipato  accesso  ai
benefici premiali, dunque nell'ambito delle finalita'  attuative  del
finalismo rieducativo, analoga ratio  non  si  rinviene  nel  rimedio
compensativo (avente finalita'  precipuamente  riparatorie),  siccome
avviene nel caso di decurtazione della pena temporanea  a  titolo  di
indulto che non puo' valere di per se' come «pena scontata»  (se  non
per volonta' espressa del legislatore) stante la  natura  clemenziale
di questo beneficio, concesso  in  forme  generalizzate  prescindendo
dalla partecipazione dei condannati all'opera rieducativa. 
    Tale fictio, per essere operante  nel  caso  di  specie,  avrebbe
dunque  dovuto  essere  prevista  espressamente.  Cio'  premesso,  va
peraltro  considerata  l'ipotesi  -  sussistente  nel  caso  concreto
all'esame del remittente - dell'ergastolano che abbia  comunque  gia'
raggiunto il termine minimo per l'accesso  al  beneficio  piu'  ampio
(liberazione condizionale) per il quale dunque la riduzione  di  pena
non apporterebbe,  anche  a  voler  estendere  in  via  analogica  il
disposto del comma 4 dell'art. 54 o.p., alcun concreto vantaggio. Per
l'odierno reclamante in  altre  parole  il  rimedio  risarcitorio  di
natura «detrattiva» si rivelerebbe del tutto inefficace. Si noti che,
viceversa, per il  condannato  ad  una  pena  temporanea  il  rimedio
«detrattivo» e' sempre per sua natura efficace - anche  a  non  voler
considerare  la  decurtazione  come  «pena  espiata»  -  poiche'   la
riduzione di una  pena  «con  scadenza»  si  risolve  in  ogni  caso,
indipendentemente dall'accesso ai benefici, in un'obiettiva  utilita'
in quanto anticipa la sua  fuoriuscita  dal  circuito  penitenziario,
possibilita' in contrario preclusa del tutto  al  condannato  a  pena
perpetua. 
    Ribadito che l'equiparazione espressamente prevista dall'art. 54,
comma 4, o.p. e' ipotesi eccezionale che non  puo'  essere  applicata
nel contesto dell'art. 35-ter o.p. (nemmeno ai condannati ad una pena
temporanea) e che comunque nel caso di  specie,  ancorche'  prevista,
essa non apporterebbe alcun  concreto  vantaggio  al  richiedente  il
quale puo' gia' da tempo essere ammesso (avendo espiato oltre 26 anni
di pena) al beneficio della liberazione condizionale, resta dunque da
esplorare un'ulteriore opzione ermeneutica che individui nel caso  di
specie il rimedio pecuniario previsto dai commi  2  e  3  come  unico
esperibile. 
    A  tale  interpretazione  ostano  tuttavia   decisivi   argomenti
testuali. 
    La possibilita' di accordare un  ristoro  patrimoniale  e',  come
ricordato, prevista o nei casi  di  soggetti  ormai  fuoriusciti  dal
circuito carcerario (che, a norma del  comma  3,  possono  rivolgersi
solo al giudice civile) o, nei casi di soggetti detenuti  (comma  2),
«quando il  periodo  di  pena  ancora  da  espiare  e'  tale  da  non
consentire la detrazione dell'intera misura  percentuale  di  cui  al
comma 1». E' questo il caso in cui la riduzione  di  pena  non  possa
essere totalmente satisfattiva per il fatto che la pena «residua»  da
ridurre non consente di risarcire, per quella via,  integralmente  il
danno patito (e' l'ipotesi in cui il numero dei giorni  da  decurtare
sia superiore a quello dei  giorni  che  rimangono  per  la  completa
espiazione  della  sanzione).  L'uso   dell'avverbio   «altresi'»   e
l'espressione «residuo periodo» dissolvono ogni dubbio sul ruolo solo
«complementare» delle somme di denaro liquidabili dal  magistrato  di
sorveglianza. Salva l'ipotesi, del tutto speciale, di cui  all'ultima
parte del comma 2  («Il  magistrato  di  sorveglianza  provvede  allo
stesso modo nel caso in cui  il  periodo  di  detenzione  espiato  in
condizioni non conformi  ai  criteri  di  cui  all'articolo  3  della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali sia stato inferiore ai  quindici  giorni»),  il
rimedio  pecuniario  non  e'  approdo  consentito  al  magistrato  di
sorveglianza «per l'intero»  ma  solo  per  la  parte  «residua»  non
coperta  da  una  pena  che,  per   limiti   oggettivi,   si   riveli
«incapiente». Cio' e' tanto vero che  l'avverbio  «altresi'»  impone,
per periodi superiori a 15  giorni,  al  magistrato  di  sorveglianza
dapprima di operare la  riduzione  di  pena  e  solo  se  questa  non
consente l'intera riduzione a cui avrebbe diritto il  condannato,  di
liquidare una somma di denaro, pari ad 8  euro  per  ogni  giorno  di
pregiudizio sofferto. Tale somma e'  destinata  a  ristorare  proprio
quella quota percentuale di danno  che  rimarrebbe  non  «compensata»
dalla riduzione di pena. Non sembra consentito  dunque  estendere  il
potere del magistrato di sorveglianza  di  liquidazione  del  danno -
potere che appare gia' eccezionale e  straordinario  nell'ambito  del
procedimento  di  sorveglianza  ex  articoli  666  e  678  codice  di
procedura penale - in via analogica ad ipotesi non previste. 
    L'impossibilita'  di   accordare   un   ristoro   effettivo   del
pregiudizio subito dal richiedente  alla  luce  delle  argomentazioni
sopra    esposte,    sia    attraverso     l'estensione     analogica
dell'equiparazione prevista dall'art. 54, comma 4 o .p. (comunque non
satisfattiva nel caso di  specie),  sia  attraverso  il  risarcimento
pecuniario previsto dal comma 2 dell'art.  35-ter  o.p.  (ed  esclusa
l'ipotesi del comma 3 essendo il  richiedente  ancora  in  vinculis),
anche dopo  aver  verificato  l'impossibilita'  di  giungere  ad  una
lettura della norma che, nel rispetto dei comuni canoni  ermeneutici,
consenta di intenderla in  armonia  con  la  Costituzione,  rende  la
questione sollevata non manifestamente infondata. 
    La norma dell'art. 35-ter  o.p.,  nella  parte  in  cui  nega  la
propria applicabilita' all'ipotesi qui considerata,  parrebbe  dunque
porsi in contrasto innanzitutto con l'art. 3 Cost. in quanto  esclude
gli ergastolani dal trattamento risarcitorio senza alcuna ragionevole
giustificazione.  Il  diverso   trattamento   comporta   una   palese
differenza di tutela dei diritti fra detenuti temporanei  e  perpetui
posto che soltanto i primi possono beneficiare dell'ambita  riduzione
della  sanzione  penale  e,  in  forma  solo  parziale,  del  ristoro
patrimoniale, mentre i secondi, pur di  fronte  a  detenzioni  lesive
della dignita' umana,  esaurirebbero  le  pretese  di  giustizia  nei
generali strumenti di tutela risarcitoria in sede  ordinaria  civile,
la cui ineffettivita' e' da  tempo  condannata  dalla  Corte  europea
(come emerge dalla  nota  sentenza  Torreggiani)  ovvero,  in  ultima
analisi, nella mera possibilita' di azionare lo speciale  rimedio  ex
art. 35-ter o.p. avanti al giudice civile ma nell'ipotesi, del  tutto
eventuale, di rimessione in liberta' (opererebbe infatti in tal  caso
anche nei loro confronti, ormai soggetti liberi, il rimedio  previsto
dal comma 3). 
    L'irragionevolezza  che  ne  deriva  si  pone  dunque  in   netto
contrasto con l'art. 3 Cost. 
    La norma censurata si pone in conflitto altresi'  con  l'art.  24
Cost. poiche' rende per  tale  categoria  di  soggetti  lo  strumento
giudiziale di tutela privo di effettivita',  nonostante  le  pronunce
della Corte costituzionale (n.  99/26)  ed  i  richiami  della  Corte
europea  dei  diritti  dell'uomo   (soprattutto   C.   eur.   8-1-13,
Torreggiani ed a. c. Italia) abbiano posto in  maniera  rilevante  la
questione dell'effettivita' dei rimedi interni concessi  al  detenuto
contro le violazioni dell'art.  3  Convenzione  Europea  dei  Diritti
dell'Uomo, non solo per interrompere immediatamente una violazione in
atto  (cosiddetti  rimedi  «preventivi»),  ma   anche   per   fornire
un'adeguata riparazione del danno subito  a  causa  della  violazione
(cosiddetti rimedi «compensativi»). Imponendo allo  Stato  di  creare
«senza indugio» un ricorso o una combinazione di ricorsi che  abbiano
effetti preventivi oltreche' compensativi (in grado questi ultimi  di
consentire alle persone ristrette in  condizioni  lesive  della  loro
dignita' di ottenere  una  qualsiasi  forma  di  riparazione  per  la
violazione subita) la Corte EDU ha fissato per lo Stato le coordinate
fondamentali del necessario intervento legislativo.  Conseguentemente
l'art. 35-ter o.p. (introdotto  dal  decreto-legge  26  giugno  2014,
n. 92 convertito nella legge  11  agosto  2014,  n.  117  proprio  in
esecuzione del monito europeo) si porrebbe in contrasto altresi'  con
l'art. 117, comma 1 Cost. L'irriducibile compressione  dell'art.  24,
comma l Cost. e' infatti strettamente connessa  alla  violazione  del
parametro interposto dell'art. 117,  comma  1  Cost.  che  impone  al
legislatore  il  rispetto  dei  vincoli  derivanti   dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi  internazionali,  conseguenti  al  pieno
valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali  dell'uomo.  La
Corte europea nell'invitare alla  creazione  di  nuovi  strumenti  di
protezione dei diritti dei reclusi, in primis di fronte  al  problema
strutturale  ed  endemico  del  sovraffollamento,   si   e'   rivolta
indubbiamente all'intera popolazione detenuta, senza distinzione  fra
ergastolani e reclusi comuni. L'art. 3 CEDU,  per  come  interpretato
dalla giurisprudenza della Corte EDU, opera  quale  norma  interposta
integrativa del parametro costituzionale violato (l'art.  117,  comma
1,  Cost.)  in  quanto  l'art.  35-ter  o.p.,  escludendo   qualsiasi
meccanismo   ristorativo   e/o   risarcitorio   per   il   condannato
all'ergastolo,  elude  il  giudicato  della   sentenza   Torreggiani,
violando cosi' - direttamente - l'art. 3 CEDU e  -  indirettamente  -
l'obbligo  costituzionale  gravante  sul  legislatore  nazionale   di
rispettare il relativo vincolo internazionale pattizio. 
    Infine va denunciato il contrasto  della  norma  con  l'art.  27,
comma 3 Cost.  
    Dalla ricostruzione sopra effettuata emerge  infatti  chiaramente
la necessita' di non comprimere in  modo  irragionevole  il  percorso
rieducativo  dei   condannati   all'ergastolo   impedendo   loro   la
progressiva umanizzazione della pena, con cio' rendendo piu' concreta
e funzionale l'azione intesa alla loro  rieducazione:  in  tal  senso
anche le inequivoche prese di posizione della Corte costituzionale, a
partire dalle sentenze n. 12/1966 (mass. 2503)  e  n.  376/1997,  per
giungere fino alla recente sentenza n. 279/2013. Del resto la  stessa
protezione  della  sfera  giuridica  del  detenuto  e'  un   elemento
imprescindibile per consentire alla pena di tendere alla rieducazione
del condannato: non e' possibile concepire una pena  rieducativa  che
riconosca sulla carta i diritti del ristretto senza poi  corroborarli
con gli strumenti necessari per difenderli in  giudizio,  soprattutto
in caso di trattamenti disumani e degradanti e dunque  di  violazioni
di diritti  aventi  piena  protezione  costituzionale.  E  lo  stesso
percorso di rivisitazione  in  chiave  critica  dei  reati  commessi,
funzionale al reinserimento sociale del condannato ex art. 27,  comma
1 decreto del Presidente della Repubblica 30  giugno  2000,  n.  230,
principale    obiettivo    del    percorso    trattamentale     anche
dell'ergastolano (e proprio in  funzione  dell'accertamento  di  quel
«sicuro  ravvedimento»  che  e'  alla  base   del   beneficio   della
liberazione    condizionale),    rimarrebbe     compromesso     dalla
consapevolezza di essere vittima di un'ingiustizia. 
    Cio' detto, deve ora essere specificato il petitum. 
    Esso  mira  a  due  addizioni  normative  all'art.  35-ter  o.p.,
entrambe  riferibili  alla  condizione  del  condannato   alla   pena
dell'ergastolo: 
        1) una riduzione di pena a titolo risarcitorio  agli  effetti
del computo della misura di pena scontata per  accedere  ai  benefici
penitenziari  dei  permessi  premio,  della  semiliberta'   e   della
liberazione condizionale; 
        2) l'estensione del ristoro economico, previsto  al  comma  2
della disposizione impugnata, al caso dell'ergastolano che abbia gia'
scontato una frazione di pena che renda  ammissibile  la  concessione
della liberazione condizionale. 
    Nel primo caso l'addizione normativa  comporterebbe  l'estensione
di un meccanismo «esterno», previsto cioe' in  altro  ambito  (quello
della liberazione anticipata ex art. 54, comma  4  o.p.)  mentre  nel
secondo caso  essa  si  limiterebbe  ad  estendere  coerentemente  il
meccanismo riparativo «interno», meramente  pecuniario,  gia'  creato
dal legislatore nella stessa norma ma riservato ad altre ipotesi. 
    Questo  giudice  e'  perfettamente  consapevole  del  difetto  di
rilevanza dell'ipotesi sub 1), per le ragioni sopra esposte in merito
all'ammissibilita' temporale ai benefici gia' raggiunta  dall'odierno
ricorrente, ma non ignora come sia consentito alla  Corte,  ai  sensi
dell'art. 27 legge n. 87 del 1953, dichiarare  quali  sono  le  altre
disposizioni  legislative   la   cui   illegittimita'   deriva   come
conseguenza della decisione di accoglimento adottata. 
    Non ignora  nemmeno  il  remittente  che  la  decisione  di  tipo
additivo e' consentita solo quando la soluzione adeguatrice non debba
essere  frutto  di  una   valutazione   discrezionale   ma   consegua
necessariamente al giudizio di  legittimita',  sicche'  la  Corte  in
realta' non crea liberamente la norma ma  si  limita  ad  individuare
quelle - gia' implicite nel sistema (nel caso di specie  il  disposto
del comma 4 dell'art. 54 o.p. ovvero quello  del  comma  2  dell'art.
35-ter o.p.) - mediante le quali riempire immediatamente la lacuna. 
    Il remittente e' parimenti consapevole che le pronunce cosiddette
«additive» possono risolversi in un intervento manipolativo  solo  se
«a rima obbligata» (v. ex multis Corte costituzionale n.  113/12  del
18 aprile 2012), come tale  consentito  perche'  non  necessariamente
riservato al legislatore. 
    Nel caso di specie invero  la  soluzione  prospettata  (prevedere
l'applicazione della riduzione di pena  o  il  ristoro  pecuniario  a
titolo di rimedio risarcitorio anche per  l'ergastolano)  e'  l'unica
che puo' ristabilire  una  condizione  di  legalita'  dell'esecuzione
della pena nel caso concreto. Si evidenzia che l'addizione  normativa
richiesta sembra costituire una soluzione  costituzionalmente  dovuta
che non eccede i poteri di  intervento  della  Corte  e  non  implica
scelte affidate alla discrezionalita' del legislatore perche' diretta
solo ad  evitare  discriminazioni  fra  detenuti  comuni  e  detenuti
ergastolani nell'ambito della tutela di diritti riconosciuti da norme
nazionali e sovranazionali. La soluzione qui prospettata  (consentire
la riparazione pecuniaria all'ergastolano per  l'intero)  inoltre  si
limita a  estendere  coerentemente  un  meccanismo  gia'  creato  dal
legislatore per i soggetti detenuti sebbene, nelle ipotesi  previste,
solo in via complementare. 
    Si osserva incidentalmente che  anche  la  soluzione  che  ci  si
limita a sollecitare (considerare la riduzione di pena  agli  effetti
del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere
ammessi ai benefici dei permessi premio, della semiliberta'  e  della
liberazione condizionale) quale conseguenza dell'addizione  normativa
richiesta (prevedere il ristoro solo economico), appare in linea  con
quella  concezione  «dinamica»  dell'ergastolo  che,  con   opportuni
correttivi, finisce con l'incidere sulla natura  stessa  della  pena.
L'ergastolo  «a  taluni  fini»  puo'  assumere  i   caratteri   della
temporaneita' nel quadro di quelle misure premiali che anticipano  il
reinserimento come effetto del  sicuro  ravvedimento  del  condannato
(cfr. sentenza n. 168 del 1994) e tra i «fini» cui  allude  la  Corte
sembra  meritevole  di  essere  ricompreso  anche  l'eguaglianza  dei
detenuti di fronte alla legge. 
    Sussistono, in  definitiva,  ragioni  di  contrasto  della  norma
contenuta nell'art. 35-ter o.p. con gli articoli 3, 24, 27 comma 3  e
117 comma 1 Cost. e pertanto, sul presupposto della sua rilevanza  in
fatto, la questione di  illegittimita'  costituzionale  sollevata  va
dichiarata non manifestamente infondata.